Quel giorno di novembre 2015 l’obiettivo della polizia egiziana erano i venditori ambulanti di calze, occhiali da sole da 2 dollari e gioielli finti, raggruppati sotto i portici degli eleganti edifici secolari di Heliopolis, un sobborgo del Cairo. Blitz come questo erano di routine, ma questi venditori occupavano una zona particolarmente sensibile. A solo una novantina di metri di distanza si trova il palazzo riccamente decorato nel quale il Presidente dell’Egitto, l’autoritario leader militare Abdel Fattah el-Sisi, accoglie i dignitari stranieri. Mentre gli uomini raccoglievano in fretta le lore cose dai tappetini e dai portoni, preparandosi a fuggire, avevano tra loro un’assistente improbabile: un ricercatore universitario italiano di nome Giulio Regeni.
Giulio era arrivato al Cairo pochi mesi prima per condurre ricerche per il suo dottorato a Cambridge. Cresciuto in un piccolo paese vicino a Trieste da un padre rappresentante e da una madre insegnante, Regeni, un ventottenne di sinistra, era rimasto affascinato dallo spirito rivoluzionario della Primavera araba. Nel 2011, quando erano esplose le manifestazioni di Piazza Tahrir che condussero alla caduta del Presidente Hosni Mubarak, stava finendo il suo corso di laurea in arabo e scienze politiche all’università di Leeds. Si trovava al Cairo nel 2013, lavorando come stagista per un’agenzia delle Nazioni Unite, quando una seconda ondata di manifestazioni portarono le forze armate a cacciare il presidente egiziano recentemente eletto, l’Islamista Mohamed Morsi, e a mettere al potere al-Sisi. Come molti egiziani divenutiti ostili al governo troppo invadente di Morsi, Regeni apprezzò questo sviluppo. “Fa parte del processo rivoluzionario,” scrisse a un’amico inglese, Bernard Goyder, nella prima parte di agosto. In seguito, meno di due settimane dopo, le forze di sicurezza di al-Sisi uccisero 800 sostenitori di Morsi in un solo giorno, il peggior massacro voluto dallo stato nella storia dell’Egitto. Fu l’inizio di una lunga spirale di repressione. Regeni presto partì per l’Inghilterra, dove cominciò a lavorare per Oxford Analytica, un’azienda di analisi e ricerca.
Da lontano, Regeni seguiva con attenzione il governo di al-Sisi. Scriveva rapporti sul Nord Africa, analizzando tendenze politiche e economiche, e in capo a un’anno aveva risparmiato abbastanza soldi da poter iniziare il dottorato in studi dello sviluppo a Cambridge. Decise di concentrarsi sui sindacati indipendenti egiziani — la cui serie di scioperi senza precedenti iniziati nel 2006, aveva predisposto il popolo egiziano alla rivolta contro Mubarak; adesso con la Primavera araba a pezzi, Regeni vedeva i sindacati come fragile speranza per la maltrattata democrazia egiziana. Dopo il 2011, il loro numero esplose, passando da quattro a migliaia di sindacati. C’erano sindacati per ogni cosa: macellai, assistenti di teatro, scavatori di pozzi e minatori, addetti alla riscossione delle bollette del gas e comparse nelle telenovelas trash che andavano in onda durante il mese santo di Ramadan. C’era anche in sindacato indipendente dei nani. Guidato dalla sua relatrice, una nota professoressa egiziana di Cambridge che aveva scritto in modo critico su al-Sisi, Regeni scelse di studiare i venditori ambulanti — giovani uomini provenienti da paesini lontani che si ingegnavano per sopravvivere sui marciapiedi del Cairo. Regeni si immerse nel loro mondo sperando di valutare il potenziale del loro sindacato nella guida del cambiamento politico e sociale.
Però con l’arrivo del 2015, quel tipo di immersione culturale, preferito a lungo da arabisti in erba, non era più facile come prima. Una coltre di sospetti era caduta sul Cairo. La stampa era stata ridotta al silenzio, avvocati e giornalisti venivano regolarmente molestati e gli informatori riempivano i caffe del centro del Cairo. La polizia fece un blitz nell’ufficio in cui Regeni conduceva le sue interviste; folli storie di cospirazioni straniere andavano regolarmente in onda sui canali televisivi del governo.
Regeni non si faceva scoraggiare. Parlava cinque lingue, era insaziabilmente curioso e aveva un fascino sottile che gli aveva attirato un ampio circolo di amici. Dai 12 ai 14 anni, era stato il sindaco dei ragazzi della sua cittadina natale, Fiumicello. Teneva molto alla sua capacità di navigare in culture diverse, e gli piaceva la vita disordinata delle strade del Cairo: i caffè fumosi, l’attività frenetica e infinita, le barche colorate come caramelle che la sera navigavano sul Nilo. Si registrò come ricercatore esterno presso l’American University del Cairo e trovò una stanza a Dokki, un quartiere strozzato dal traffico tra le piramidi ed il Nilo, dove condivideva un appartamento con due giovani professionisti: Juliane Schoki, che insegnava tedesco, e Mohamed El Sayad, avvocato in uno dei più antichi studi legali del Cairo. Dokki non era una zona alla moda, però si trovava a due sole fermate di metropolitana dal centro del Cairo, con i suoi labirinti di alberghi economici, bettole, isolati di appartamenti fatiscenti che circondano Piazza Tahrir. In breve, Regeni aveva fatto amicizia con scrittori ed artisti ed perfezionava il suo arabo da Abou Tarek, un emporio di quattro piani illuminato con luci al neon che è il posto più famoso del Cairo per il koshary, il piatto tradizionale egiziano di riso, lenticchie e pasta.
Passava le ore a intervistare venditori di strada a Heliopolis e nel piccolo mercato dietro la stazione Ramses. Per ottenere la loro fiducia, mangiava dagli stessi sporchi carretti dei suoi interlocutori; il supervisore accademico di Regeni all’American University lo avvertì che si sarebbe procurato un’intossicazione alimentare. A Regeni non interessava: si muoveva attraverso il Cairo con un tranquillo senso del proprio scopo.
Per caso era venuta al Cairo per lavoro Valeriia Vitynska, un’ucraina che Giulio aveva conosciuto a Berlino quattro anni prima. Riallacciarono i rapporti. “Era più bella di quanto mi ricordavo,” scrisse in un SMS ad un amico. Fecero un viaggio al Mar Rosso, e quando lei tornò al suo lavoro a Kiev, continuarono via Skype la loro relazione. “Fu molto intenso e bello,” mi ha detto l’amica di Regeni Paz Zàrate, “Lui era gioioso, pieno di speranza per il futuro.”
Tuttavia Regeni era cosciente dei pericoli del Cairo. “È molto deprimente,” scrisse a Goyder dopo un mese di soggiorno. “Tutti sono super-consapevoli dei giochi in corso.” A dicembre partecipò a un incontro di attivisti sindacali e scrisse di questa esperienza per una piccola agenzia di stampa italiana. Durante l’incontro, disse ad amici, Regeni aveva notato una ragazza velata che gli scattava foto con il cellulare. Era stato inquietante. Regeni si lamentò con i suoi amici che alcuni venditori ambulanti lo infastidivano per chiedergli favori, come per esempio cellulari nuovi. E poi il rapporto con il suo contatto principale, un uomo massiccio di circa quarant’anni di nome Mohamed Abdullah, prese una strana piega.
Abdullah, che per una decina d’anni aveva lavorato per un tabloid del Cairo, nella distribuzione, prima di salire al vertice del sindacato dei venditori ambulanti, era la guida di Regeni che gli offriva consigli e gli presentava uomini da intervistare.
Una sera ai primi di gennaio dell’anno scorso, i due si incontrarono in un ahua — un caffè in cui spesso gli uomini fumano il narghilè — vicino alla stazione Ramses. Mentre bevevano tè, parlarono di una borsa di studio di 10.000 sterline per “ricercatori attivisti” messa a disposizione da un gruppo non-profit inglese chiamato Antipode Foundation. Regeni si offrì di fare la domanda per il contributo. Abdullah aveva altre idee. Potrebbe essere usata per “freedom projects” — cioè attivismo politico contro il governo egiziano? No, non era possibile, rispose risolutamente Regeni. Abdullah cambiò tono. Sua figlia doveva operarsi e sua moglie era malata di cancro. Abdullah “avrebbe fatto qualunque cosa” per soldi. Regeni, esasperato, gesticolava in modo teatrale mentre toccava i limiti del proprio arabo. “Mish mukin,” disse. Non è possibile. “Mish professional.”
Due settimane dopo, nel quinto anniversario della rivolta del 2011 il Cairo era quasi totalmente chiuso per motivi di sicurezza. Piazza Tahrir era deserta, eccetto per un centinaio di sostenitori del governo portati lì a sventolare striscioni di al-Sisi e scattarsi selfie con la polizia antisommossa. Per settimane i servizi di sicurezza avevano messo dentro potenziali manifestanti, facendo blitz negli appartamenti del centro e nei caffè. Come quasi tutta la gente del Cairo, Regeni passò la giornata a casa, lavorando e ascoltando musica. Al calar della notte, decise che fu sicuro uscire dall’appartamento: un’amica italiana lo aveva invitato a una festa di compleanno per un egiziano di sinistra. Avevano concordato di incontrarsi in un caffè vicino a Piazza Tahrir.
Prima di uscire, Regeni ascoltò la canzone di Coldplay “A Rush of Blood to the Head” — e mandò un SMS a Vitynska. “Sto uscendo,” scrisse alle 19:41. Per la stazione della metropolitana c’erano solo pochi passi. Ma alle 20:18 Regeni ancora non era arrivato. Il suo amico italiano cominciò a tentare di raggiungerlo — all’inizio con SMS, poi con chiamate frenetiche.
Tra le promesse più intossicanti della Primavera araba era la speranza che il detestato apparato di sicurezza sarebbe stato smantellato. A marzo 2011, nei primi emozionanti mesi della rivolta, gli egiziani presero d’assalto il quartier generale della Sicurezza di Stato, la principale arma di repressione dell’era Mubarak, e ne emersero con liste di informatori, copie di foto di sorveglianza e trascrizioni di intercettazioni telefoniche. Alcuni trovarono foto di se stessi. Ci furono richieste per un drastico risanamento dei servizi di sicurezza. Ma quando il paese sprofondò nel caos post-rivoluzionario, i discorsi sulla riforma si spensero. Dopo l’ascesa al potere di al-Sisi nel 2013, divenne chiaro quanto poco le cose erano cambiate.
Sicurezza dello stato cambiò nome in agenzia di sicurezza nazionale ma rimase sotto il controllo del potente Ministero degli Interni, che si stimava impiegasse più di un milione e mezzo di poliziotti, agenti di sicurezza e informatori. Gli agenti che erano stati licenziati furono reintegrati, e le camere di tortura vennero riaperte. I capi dell’opposizione, temendo l’arresto, fuggirono dal paese. Gli osservatori dei diritti umani cominciarono a contare il numero di persone “sparite” — critici che scomparivano mentre si trovavano in custodia statale senza aver subito arresto o processo — finché anche gli osservatori cominciarono a loro volta a sparire.
Oggi, l’Egitto è probabilmente un posto più duro di quanto non sia mai stato sotto Mubarak. Dopo aver presso il potere, al-Sisi ha vinto le elezioni presidenziali del 2014 con il 97% dei voti. Il Parlamento è pieno di suoi sostenitori e le carceri sono piene di suoi oppositori — 40.000 persone, secondo la maggior parte delle fonti, principalmente Fratelli Musulmani, l’organizzazione islamista fondata nel 1928, ma anche avvocati, giornalisti, e volontari di agenzie di assistenza. al-Sisi giustifica queste misure con il pericolo che viene dagli estremisti. Fin dal 2014 militanti dello Stato Islamico combattono i soldati egiziani nel Sinai; e quest’anno hanno mandato kamikaze nelle chiese copte, uccidendo dozzine di persone. Molti egiziani temono che senza un’autorità forte e stabile il loro paese di 93 milioni di abitanti potrebbe diventare la prossima Siria, Libia o Irak. In maggioranza, le élite del Paese, paventando il caos che era seguito alla Primavera araba, stanno risolutamente dalla parte di al-Sisi; molti intellettuali, costernati dalla breve vita dell’esperienza di democrazia, ammettono di non avere più idee.
Indipendente da qualsiasi partito politico, al-Sisi deriva la sua autorità dai pilastri dello stato — generali, giudici e capi della sicurezza — che sono sempre più potenti. Il principio guida di questo stato di polizia nascente è prevenire il ripetersi degli eventi del 2011, come mi ha detto l’ambasciatore di un paese occidentale — che mi ha chiesto di rimanere anonimo perché non è autorizzato a parlare su questo argomento —mentre sedevamo nel suo giardino l’inverno scorso. Nel suo ultimo decennio al potere, Mubarak aveva fatto qualche concessione. I Fratelli Musulmani avevano vinto un quinto dei seggi in Parlamento; la stampa godeva di una libertà limitata; alcuni scioperi furono permessi, con riluttanza. Però niente di tutto ciò salvò Mubarak — in realtà, secondo i funzionari di al-Sisi, proprio questo allentamento ha accelerato la sua fine. La lezione è stata chiara: “Dare un centimetro è uno sbaglio;” disse l’ambasciatore, elencando le caratteristiche del regime di al-Sisi, “la segretezza; la paranoia; l’idea che il potere si afferma con l’apparire forte, senza mostrare debolezze o costruire ponti.”
La decifrazione dei meccanismi interni delle tre principali agenzie di sicurezza è diventata una fissazione per gli osservatori dell’Egitto. “È tutto molto opaco, come una scatola nera,” mi ha detto Michael Wahid Hanna di Century Foundation, un istituto politico di New York. “Pero ci sono degli indizi”.
Le agenzie di sicurezza sono fedeli ad al-Sisi, mi ha spiegato Hanna, però manovrano in continuazione per guadagnare migliori posizioni. La Agenzia di sicurezza nazionale, che si pensa abbia 100.000 impiegati e almeno altrettanti informatori, rimane la più visibile. La sua rivale emergente è servizi segreti militari, che tradizionalmente evitava la politica ma ora si è ingrandita sotto al-Sisi, che ne è stato a capo dal 2010 al 2012. Il Servizio di Intelligence Generale è l’equivalente egiziano della CIA. Immensamente potente sotto Mubarak, è adesso considerata un po’ sminuita.
Nel loro complesso, queste agenzie esercitano un’influenza fuori misura. Possiedono stazioni televisive, controllano blocchi di parlamentari e si muovono nel mondo degli affari; i loro agenti sorvegliano sia le strade sia Internet. Sono loro a determinare la linea di separazione tra ciò che è lecito nella società egiziana e ciò che non lo è. Questo rende l’Egitto un luogo pericoloso per i critici: una mossa sbagliata, o perfino una battuta considerata fuori posto (alcuni egiziani sono finiti in prigione per un post su Facebook) può portare all’incarcerazione o al divieto di lasciare il paese. Amnesty International stima che il numero di persone scomparse è di circa 1.700 e sostiene che le esecuzioni extragiudiziali sono un fatto comune.
Quando Regeni arrivò nel 2015 si pensava che gli stranieri fossero soggetti a regole diverse. È vero che alcuni avevano avuto problemi. All’inizio dell’anno il giornalista australiano Peter Greste di Al Jazeera era stato finalmente rilasciato dopo tredici mesi in carcere, accusato di aver compromesso la sicurezza nazionale; uno studente francese era stato espulso dal paese per aver intervistato attivisti democratici. I relatori accademici di Regeni lo avevano avvisato di evitare contatti con membri dei Fratelli Musulmani. “La situazione qua non è facile,” Regeni aveva scritto a un amico un mese dopo l’arrivo. Ma, come mi disse poi il suo supervisore, tutto sommato Regeni era convinto che il suo passaporto lo avrebbe protetto. La sua vera paura era di essere obbligato a tornare a Cambridge prima di riuscire a finire la sua ricerca.
Una settimana dopo la sparizione di Regeni l’ambasciatore italiano al Cairo, Maurizio Massari fu colpito da un presentimento. Con la sua massa di capelli grigi e il suo fascino raffinato, Massari era una figura popolare nel giro diplomatico del Cairo. Gli piaceva ospitare eventi con accademici e politici egiziani; durante i fine settimana guardava partite di calcio con la sua controparte americana, l’ambasciatore R. Stephen Beecroft. Ora, camminava avanti e indietro per i lunghi corridoi di marmo dell’ambasciata italiana che danno sul Nilo.
Le notizie della scomparsa di Regeni si diffusero in tutto il Cairo. I suoi amici lanciarono una campagna online con l’hashtag #whereisgiulio. I genitori di Regeni, che erano volati dall’Italia, dormivano nel suo appartamento a Dokki. Circolava la voce che Regeni fosse stato sequestrato da radicali islamisti — una possibilità terrificante perché sei mesi prima un ingegnere croato rapito alla periferia del Cairo era stato decapitato da militanti dello Stato Islamico. L’ansia dell’ambasciatore era amplificata dalla risposta degli ufficiali egiziani. La sezione di intelligence dell’ambasciata italiana non aveva piste, così Massari chiese di vedere il ministro degli esteri, il ministro della produzione militare e il consigliere egiziano per la sicurezza nazionale, Fayza Abul Naga. Tutti affermarono di non sapere nulla. L’incontro più inquietante fu quello con il ministero dell’interno, Magdi Abdel-Ghaffar, che impiegò sei giorni per concordare un’incontro — per poi rimanere impassibile mentre il diplomatico italiano implorava il suo aiuto. Massari se ne andò perplesso: Abdel-Ghaffar, veterano di quarant’anni anni nei servizi di sicurezza, aveva un esercito di informatori. Come poteva essere all’oscuro?
La polizia avviò una ricerca di persona scomparsa, però sembrava di seguire strane linee di indagine. Quando gli investigatori intervistarono Amr, un professore universitario di sinistra amico di Regeni, che desidera che il suo cognome non venga usato per questo articolo per tema di vendette, gli venne chiesto ripetutamente se Regeni fosse gay. “Gli dichiarai che Giulio aveva una fidanzata,” Amr mi disse quando ci siamo visti per un caffè vicino alla sua casa nel sobborgo di Maadi. “Poi un altro tizio fa: ‘Sei sicuro che è etero? Forse è uno di quei bisessuali’.’”
“Io gli ho detto ‘Trovatelo e basta.’”
La crisi si intensificò con l’arrivo di un’importante delegazione commerciale italiana. Fin dal 1914 l’Italia aveva mantenuto legami diplomatici con l’Egitto, restando vicina al paese anche quando altri ne prendevano le distanze. L’Italia era il maggior partner commerciale europeo dell’Egitto — quasi sei miliardi di dollari nel 2015 — e Roma era fiera dei legami con il Cairo. Nel 2014, l’allora primo ministro Matteo Renzi, fu il primo leader occidentale a accogliere al-Sisi nella propria capitale, e l’Italia continuava a vendere all’Egitto armi e sistemi di sorveglianza nonostante l’aumento delle prove di abusi dei diritti umani.
Il giorno dopo l’incontro di Massari con il ministro dell’interno, il ministro italiano dello sviluppo economico Federica Guidi arrivò al Cairo con trenta dirigenti italiani, sperando di firmare accordi nei settori dell’edilizia, dell’energia e delle armi. Adesso era Regeni il primo punto dell’agenda. Il gruppo andò subito a Al-Ittihadiya, il principale palazzo presidenziale, lì dove mesi prima Regeni aveva aiutato i venditori ambulanti durante il blitz della polizia fuori dei cancelli posteriori. Massari e Guidi furono ammessi a un incontro privato con al-Sisi, che ascoltò gravemente mentre gli italiani delineavano le loro preoccupazioni. Ma anche al-Sisi si limitò a offrire compassione.
Quella sera, Massari dette un ricevimento all’ambasciata per la delegazione commerciale e per leader d’affari egiziani. Circa duecento persone si mescolarono nella sala dei ricevimenti, sorseggiando vino in attesa della cena. Tra di loro c’era il Vice Ministro degli Esteri, Hossam Zaki, che con uno sguardo cupo si spinse attraverso la folla fino a Massari. “Non lo sai?”” disse Zaki.
“Sapere che cosa?” Massari rispose.
“Hanno trovato un corpo.”
Quella mattina presto, l’autista di un pullman che viaggiava sulla strada del deserto Cairo-Alessandria nel Cairo-ovest, notò qualcosa sul ciglio della strada. Quando scese, scoprì un corpo, nudo dalla vita in giù e cosparso di sangue. Era Regeni.
Massari si sbrigò all’albergo Four Seasons, dove soggiornava Guidi. Assieme telefonarono a Renzi e al Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Poi cancellarono il ricevimento, mandando a casa gli ospiti confusi e senza una spiegazione. Poi Massari e il ministro andarono all’appartamento di Regeni a Dokki, dov’erano i suoi genitori. Quando la madre di Regeni, Paola Deffendi, venne abbracciata dall’ambasciatore le sue paure peggiori vennero confermate. “È tutto finito” disse alla stampa più tardi. “La felicita della nostra famiglia è stata così breve.”
Massari arrivò all’obitorio Zeinhom al centro del Cairo dopo mezzanotte. Lo accompagnava una piccola squadra dall’ambasciata, con un poliziotto. Inizialmente, i funzionari dell’obitorio gli rifiutarono l’ingresso. “Aprite la porta!” urlò Massari, visibilmente agitato. Massari fu finalmente portato dentro una sala raffreddata dove il corpo di Regeni era steso su un tavolo di metallo.
La bocca di Regeni era spalancata e i suoi capelli erano impastati di sangue. Mancava uno dei suoi denti anteriori e molti altri erano scheggiati o rotti, come se fossero stati colpiti con un oggetto contundente. La sua pelle era butterata da bruciature di sigaretta, e c’erano ferite profonde sulla schiena. Il lobo dell’orecchio destro era mozzato, e le ossa dei polsi, spalle e piedi erano frantumate. Un’ondata di nausea colpì Massari. Regeni sembrava essere stato torturato a lungo. Giorni dopo, l’autopsia italiana avrebbe confermato l’entità delle sue lesioni: Regeni era stato picchiato, bruciato, pugnalato, e probabilmente frustato sulle piante dei piedi per un periodo di quattro giorni. Era morto quando gli avevano spezzato il collo.
L’ufficio di Ahmed Nagy, il procuratore inizialmente incaricato dell’indagine sull’omicidio di Regeni, si trova al settimo piano della fatiscente Procura di Giza, a qualche kilometro da Piazza Tahrir. Ogni giorno centinaia di persone ne percorrono gli stretti corridoi — avvocati, prigionieri ammanettati e le loro famiglie. Quando andai a trovarlo qualche settimana dopo la morte di Regeni, Nagy, un magro fumatore incallito, era appollaiato dietro una scrivania in stile Luigi XIV coperta di carte e di tazze di caffè bevute a metà.
Nelle prime ore dell’indagine, Nagy parlò con una franchezza sorprendente. Disse ai giornalisti che Regeni aveva sofferto una morte lenta, e lasciò aperta la possibilità che la polizia potesse essere coinvolta. “Non lo escludiamo.” Ma poco dopo l’investigatore responsabile del caso suggerì che Regeni potesse essere morto in un’incidente d’auto. Teorie sconvolgenti apparvero sui giornali e in televisione: Regeni era omosessuale ed era stato ucciso da un amante geloso. Era un tossicodipendente o una pedina dei Fratelli Musulmani. Era una spia. Parecchi articoli sottolinearono il suo lavoro presso Oxford Analytica, che era stata fondata da un ex-funzionario dell’amministrazione Nixon, come segno probabile di un suo impiego da parte della CIA o del M.I.6 britannico. In una conferenza stampa, il ministro degli interni, Abdel-Ghaffar, rigettò l’ipotesi che i servizi di sicurezza avessero detenuto Regeni. “Certo che no!” disse. “Questa è la mia ultima parola in materia: Non è successo.”
L’ufficio di Nagy era fresco e buio, le persiane ben chiuse mentre l’aria scaturiva da un rumoroso condizionatore. Con i capelli tirati indietro con il gel e il sorriso intermittente, Nagy esibiva un’aria di confortante sicurezza. Ma l’audacia che aveva dimostrato una volta sul caso Regeni era svanita. Rispose gentilmente ma evasivamente alle mie domande. “Gli omicidi possono finire irrisolti,” Nagy concluse dopo trenta inutili minuti. “Dovremo solo aspettare. Inshallah, qualcosa ne verrà fuori.”
I funzionari egiziani hanno una lunga storia di gestione delle crisi proprio attraverso la negazione prima, poi l’offuscamento, poi il perdere tempo nella speranza che il problema scompaia da solo. Nel settembre 2015, il mese dell’arrivo di Regeni, un elicottero d’attacco egiziano aveva ucciso quattro turisti messicani e quattro egiziani che facevano un picnic nel deserto occidentale egiziano scambiandoli per terroristi. Invece di presentare le loro scuse, prima le autorità tentarono di scaricare la colpa sulle guide turistiche, poi promisero un’indagine che non è mai arrivata ad alcuna conclusione. Il governo messicano era furioso. Un mese dopo, l’Egitto inizialmente rifiutò di ammettere che una bomba piazzata dallo Stato Islamico aveva fatto precipitare un jet russo sul Sinai, uccidendo 224 persone, nonostante che tanto la Russia quanto lo Stato Islamico l’avessero confermato.
Ma se i funzionari egiziani avevano creduto di poter bluffare per tirarsi fuori dalla crisi Regeni, si erano sbagliati. Più di 3.000 persone assisterono al suo funerale nel suo paese d’origine, Fiumicello; in tutta l’Italia, il lutto si trasformò in indignazione quando emersero i dettagli della sue torture atroci. Sulla stampa, Regeni fu spesso raffigurato con una foto in cui sorrideva con un gatto in braccio. Striscioni gialli con lo slogan Verità per Giulio Regeni comparvero nelle città grandi e piccole. “Ci fermeremo solo quando avremo trovato la verità,” disse Renzi ai giornalisti. “La verità vera, non una verità conveniente.”
La rabbia di Renzi si basava su qualcosa di più che una sensazione. Nelle settimane successive alla morte di Regeni, gli Stati Uniti ricevettero dall’Egitto informazioni di intelligence esplosive: la prova che funzionari di sicurezza egiziani avevano rapito, torturato e ucciso Regeni. “Avevamo prove incontrovertibili della responsabilità ufficiale egiziana,” mi disse un funzionario dell’amministrazione Obama — uno dei tre ex-funzionari che avevano confermato le prove. “Non c’era dubbio.” Su raccomandazione del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca, gli Stati Uniti passarono questa loro conclusione al governo Renzi. Ma per evitare di identificare la fonte, gli americani non condivisero i dati originali, né rivelarono quale agenzia di sicurezza pensavano fosse responsabile della morte di Regeni. “Non era chiaro chi aveva dato l’ordine di rapirlo e, presumibilmente, ucciderlo,” mi disse un’altro ex-funzionario. Quello che gli americani sapevano per certo, e lo dissero agli italiani, fu che la leadership egiziana era completamente a conoscenza delle circostanze della morte di Regeni. “Non avevamo alcun dubbio che questo era noto ai livelli più alti,” disse l’altro funzionario. “Non so se avevano responsabilità. Ma sapevano. Sapevano”
Settimane dopo, all’inizio del 2016, l’allora Segretario di Stato John F. Kerry affrontò il ministro egiziano degli esteri, Sameh Shoukry, in un incontro a Washington. Fu una conversazione “decisamente accesa”, mi disse un funzionario dell’amministrazione Obama, sebbene lo staff di Kerry non avesse potuto capire se Shoukry stesse facendo muro di gomma o se semplicemente non conoscesse la verità.” Questo approccio diretto “fece impressione” all’interno dell’amministrazione, mi disse un altro funzionario, perché Kerry aveva la reputazione di trattare con i guanti di velluto l’Egitto, un fulcro della politica estera americana dall’epoca del trattato di pace Egitto-Israele del 1979.
Una squadra di sette investigatori italiani era ormai arrivata al Cairo per assistere l’indagine egiziana. I sette furono bloccati a ogni passo. I testimoni sembravano essere stati imboccati. I filmati di sorveglianza della stazione della metropolitana vicina all’appartamento di Regeni erano stati cancellati; le richieste dei metadati di milioni di telefonate vennero respinte perché ciò avrebbe compromesso i diritti costituzionali di cittadini egiziani. Alcuni coraggiosi testimoni egiziani parlarono gli investigatori nel loro ufficio temporaneo nella cantina dell’ambasciata italiana. Ma persino lì gli italiani si sentivano a disagio.
Dopo la morte di Regeni, Massari, l’ambasciatore, divenne preoccupato per la sicurezza dell’ambasciata; poco tempo dopo smise di usare email e telefoni per trattare argomenti sensibili, facendo invece ricorso, per mandare messaggi a Roma, a una vecchia macchina per cifratura su carta. I funzionari italiani temevano che gli egiziani impiegati dall’ambasciata italiana passassero informazioni alle forze di sicurezza egiziane; notarono anche che erano sempre spente le luci di un appartamento di fronte all’ambasciata — un posto buono per mettere un microfono direzionale. Massari, ancora traumatizzato dal ricordo delle ferite di Regeni, era diventato un eremita e evitava gli incontri con altri ambasciatori. Il suo rapporto con il governo egiziano si stava deteriorando; i funzionari egiziani, infuriati da un’intervista che Massari aveva dato a una stazione televisiva italiana, erano sicuri che egli stesse cercando di incolparli dell’omicidio. “Avevamo dedotto che lui si era già schierato,” mi disse poi Hossam Zaki, vice ministro degli esteri. “Era diventato abbastanza irrilevante. Inutile.” Quando Massari usciva, la gente notò che sembrava esausto. Gli amici dicevano che aveva difficoltà a dormire.
Crescevano le pressioni internazionali sugli egiziani. I giornali italiani avevano inviato al Cairo i loro giornalisti più determinati. Apparve un sito web dal nome RegeniLeaks, per sollecitare le soffiate di informatori egiziani. La madre di Regeni cominciò una sua campagna per ottenere che venisse rivelata la verità, e affermò in una conferenza stampa che aveva potuto riconoscere il corpo martoriato di Giulio soltanto dalla punta del naso. Attori, personaggi televisivi, e calciatori italiani vennero in suo aiuto. Degli egiziani dissero alla signora Deffendi che suo figlio “era morto come un egiziano”, un attestato di stima nell’Egitto di al-Sisi. Il Parlamento Europeo passò una severa risoluzione che condannava le circostanze sospette in cui era morto Regeni; a Londra, degli attivisti presentarono al Parlamento una petizione con più di 10.000 firme, chiedendo al governo britannico di assicurare che si effettuasse “un’indagine credibile”. Anche l’FBI stava aiutando l’indagine italiana; quando un’amica di Regeni atterrò negli Stati Uniti per una vacanza, agenti la fermarono per una richiesta di informazioni.
Stavolta, l’ostruzionismo non avrebbe funzionato. “Siamo nella [espletivo] fino al collo,” osservò un importante presentatore televisivo, Amr Adeeb, durante il suo programma.
“Lei parla latino?” mi chiese Luigi Manconi, un senatore italiano che sosteneva la causa della famiglia Regeni, quando lo visitai a Roma a gennaio. “C’è una frase in latino — arcana imperii. Significa i segreti del potere.”
Fece una pausa e mi lanciò uno sguardo a effetto.
“Ciò è quanto stiamo vedendo in Egitto: il lato oscuro di quelle istituzioni; i segreti nei loro cuori.”
Il senatore si riferiva alle agenzie di sicurezza egiziane, ma quello che non diceva era che l’indagine Regeni stava portando alla luce dolorose incrinature all’interno dello stato italiano. C’erano altre priorità. I servizi di intelligence italiani avevano bisogno dell’aiuto dell’Egitto per contrastare lo Stato Islamico, gestire il conflitto in Libia, e monitorare il flusso di migranti attraverso il Mediterraneo. La società energetica controllata dello stato italiano, l’Eni, Ente Nazionale Idrocarburi, aveva i propri interessi. Settimane prima che Regeni arrivasse al Cairo, l’Eni aveva annunciato una grande scoperta: il giacimento di gas naturale Zohr, a 193 chilometri dalla costa egiziana settentrionale, che conteneva circa 850 miliardi metri cubi di gas — l’equivalente di 5.5 miliardi di barili di petrolio.
L’Italia è uno dei paesi più vulnerabili nel settore energetico, cosa che rende l’Eni più che un gigante da $58 miliardi, con operazioni in 73 paesi; lo rende anche una parte integrante della politica estera italiana. Nel 2014, Renzi riconobbe tutto ciò, chiamandolo “un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, la nostra politica estera, e la nostra politica di intelligence.” In molti paesi, l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi — l’alto petroliere milanese che ha recentemente guidato sforzi d’esplorazione in Africa — conosce i leader locali meglio dei ministri italiani.
Mentre montava la pressione per risolvere l’omicidio di Regeni, Descalzi, un’ospite regolare al Cairo, assicurava a Amnesty International che le autorità egiziane “stavano facendo il massimo sforzo” per trovare gli assassini di Regeni. Aveva discusso il caso almeno tre volte con al-Sisi. Secondo un funzionario del ministero degli affari esteri italiano, i diplomatici cominciarono a credere che l’Eni si fosse unita ai servizi di intelligence italiani nel tentativo di arrivare velocemente a una soluzione del caso. L’Eni ha una lunga storia di assunzione di spie italiane in pensione per la sua divisione di sicurezza interna, dice Andrea Greco, coautore di “The Parallel State,” un annuario del 2016 su Eni. “Hanno una collaborazione forte. Sono sicuro che possono aver collaborato nel caso Regeni, anche se non è sicuro che i loro interessi siano allineati.” Una portavoce dell’Eni dice che l’azienda è stata “sconvolta” dalla morte di Regeni e che pur non avendo alcuna responsabilità di investigare, aveva continuato “a seguire la questione molto da vicino” nei suoi interazioni con il governo egiziano.
La presunta collaborazione tra l’Eni e i servizi di intelligence italiani divenne una fonte di tensione all’interno del governo italiano. Funzionari del ministero degli esteri e dell’intelligence cominciarono a diffidare gli uni degli altri e, a volte, a non condividere informazioni. “Eravamo in guerra, e non solo con gli egiziani,” mi disse un funzionario. I diplomatici sospettavano che alcune spie italiane, in un tentativo di chiudere il caso, avessero organizzato un’intervista di al-Sisi al giornale italiano La Repubblica sei settimane dopo la morte di Regeni. (L’editore di La Repubblica sostiene che la richiesta per l’intervista era arrivata dal giornale.) Nell’intervista, al-Sisi espresse compassione per i genitori di Regeni, definendo la sua morte “terrificante e inaccettabile”, e giurò di trovare i colpevoli. “Arriveremo alla verità,” disse.
Il 24 Marzo, otto giorni dopo la pubblicazione dell’intervista, la polizia del Cairo aprì il fuoco contro un minivan che attraversava un sobborgo benestante con a bordo cinque uomini, alcuni con fedine penali sporche o storie di tossicodipendenza. Tutti e cinque vennero uccisi, e in una dichiarazione della polizia vennero poi definiti una banda di rapitori che aveva come bersaglio cittadini stranieri. In un successivo blitz in un appartamento collegato agli uomini uccisi, la polizia disse di aver scoperto il passaporto, la carta di credito e la tessera universitaria di Regeni. Poco dopo, i media di stato egiziani riportarono che gli assassini di Regeni erano stati identificati. Gli investigatori italiani, che si trovavano all’aeroporto per tornare in Italia per la Pasqua, furono richiamati al Cairo dal ministero dell’interno egiziano che li ringraziò per la loro collaborazione.
In Italia, la notizia della sparatoria venne accolta con scetticismo — su Twitter cominciò a circolare l’hashtag #noncicredo. La versione egiziana cadde a pezzi velocemente. Testimoni dissero ad alcuni giornalisti (tra cui io stesso) che gli uomini erano stati giustiziati a sangue freddo. Uno era stato colpito mentre correva e il suo cadavere posizionato più tardi dentro il minivan. “Non hanno avuto nessuna possibilità,” mi disse un uomo scuotendo la testa. Il loro collegamento con Regeni crollò: gli investigatori italiani usarono i tabulati telefonici per mostrare che il presunto capo della banda, Tarek Abdel Fattah, era a più di novanta kilometri a nord del Cairo il giorno del presunto rapimento di Regeni.
L’autunno scorso, il procuratore capo egiziano disse alla sua controparte italiana che due poliziotti erano stati accusati di omicidio in relazione alla morte dei cinque. Però una domanda imbarazzante rimaneva: se gli uomini morti non avevano ucciso Regeni, come era finito nel loro appartamento il passaporto di Regeni?
Gli Italiani avevano pochi dubbi che l’intero episodio fosse stato un rozzo tentativo di insabbiamento, eseguito in modo così inetto che gli egiziani si erano incriminati da soli. Eppure funzionò. Gli investigatori italiani lasciarono il Cairo, e l’indagine si bloccò. Massari fu sostituito con un ambasciatore a cui venne ordinato di restare a Roma. In Egitto, “Regeni”, diventò una parola che poteva essere solo mormorata. “Tutti quelli che tengono a Giulio hanno paura,” , mi disse Hoda Kamel, un sindacalista che aiutava Regeni con le sue ricerche. “Sembra che tutto lo stato, con tutto il suo potere, stia tentando di far morire l’intera storia.”
Dopo mesi di rapporti diplomatici tesi, il muro del rifiuto egiziano si è crepato — o così è sembrato. Durante un viaggio a Roma nel settembre scorso, il procuratore capo egiziano, Nabil Sadek, ha ammesso pubblicamente che la agenzia di sicurezza nazionale egiziana, sospettando Regeni di spionaggio, lo teneva sotto sorveglianza. In una serie di incontri tenuti nei mesi successivi, ha fornito agli italiani documenti — tabulati telefonici, testimonianze scritte e un video — che mostrano come Regeni venne tradito da parecchie persone a lui vicine.
Muhammad Abdullah, il contatto di Regeni del sindacato dei venditori ambulanti, era un informatore del agenzia di sicurezza nazionale. Usando una telecamera nascosta, aveva registrato la sua conversazione con Regeni sulla borsa di studio da £10.000 sterline (gli egiziani hanno consegnato il video). In una dichiarazione, ha descritto i suoi incontri con il suo contatto, Colonnello Sharif Magdi Ibrahim Abdlaal, che, afferma, gli aveva promesso una ricompensa alla chiusura del caso Regeni.
L’identità della seconda persona era forse più sorprendente. I funzionari italiani sono arrivati alla conclusione che nel mese precedente la sparizione di Regeni, il suo coinquilino, l’avvocato Mohamed El Sayed, permise a funzionari del agenzia di sicurezza nazionale di perquisire l’appartamento.
Nelle settimane successive, come risulta dai tabulati telefonici, Sayad ha avuto contatti con due funzionari del agenzia di sicurezza nazionale.
Sayad non ha risposto alle richieste di commento, ma ho avuto un lunga corrispondenza su Facebook con l’altra coinquilina di Regeni, Juliane Schoki. La sua versione riflette la clima di diffidenza nel Cairo di al-Sisi. Secondo Schoki, già dopo pochi giorni dal suo trasloco nel loro appartamento Sayad esprimeva sospetti su Regeni. Ricorda che diceva “Penso che Giulio sia una spia.”
Dopo la scomparsa di Regeni, lei cominciò a condividere quella impressione. I due supponevano che Regeni lavorasse per il Mossad. (Mi disse che una volta Regeni le aveva raccontato di aver avuto una fidanzata Israeliana e di aver visitato Israele.) Schoki, che ha poi lasciato l’Egitto, aveva trasmesso questa sua idea a funzionari di intelligence egiziani. Ricordava che “erano sorpresi perché avevano la stessa idea”.
Dopo la morte di Regeni, sedeva con Sayad, guardando thriller in televisione, dicendo, “è esattamente così!” — una cosa che ammette, ripensandoci, “sembra un po’ ridicola”. “Ma un anno fa sembrava avere perfettamente senso”.
Gli italiani hanno usato i tabulati telefonici egiziani per stabilire altri collegamenti e hanno scoperto che il poliziotto che sosteneva di aver trovato il passaporto di Regeni era stato in contatto con membri della squadra della agenzia di sicurezza nazionale che pedinava Regeni. All’improvviso, i genitori di Regeni hanno osato sperare che la verità potesse venire a galla. “Il male si sta disfacendo lentamente come un gomitolo di lana,” hanno scritto i suoi genitori in una lettera pubblicata su La Repubblica nel primo anniversario della sua scomparsa.
Tuttavia, nonostante gli egiziani abbiano ammesso di aver sorvegliato Regeni, hanno insistito di non averlo rapito né ucciso. E anche se ciò potesse essere provato, rimane il mistero principale: Perché venne “ucciso come un egiziano”? Una teoria semplice si riferisce all’opera di un agente deviato. Nel ministero dell’interno, che controlla la agenzia di sicurezza nazionale, anche agenti di basso livello godono di considerevole autonomia, e tuttavia raramente sono tenuti a rispondere dei propri atti, afferma Yezid Sayigh, senior associate della Carnegie Middle East Center di Beirut. Secondo lui, “possono accadere cose che al-Sisi non approva”. Però c’era molto altro che non aveva senso. Quale funzionario egiziano ha creduto che torturare un straniero fosse una buona idea? Perché scaricare il suo corpo sul ciglio di un’autostrada trafficata, invece di seppellirlo nel deserto dove potrebbe non essere mai più trovato? E perché far trovare il corpo al momento dell’arrivo al Cairo di delegazione italiana di alto livello?
Una lettera anonima inviata all’ambasciata italiana a Berna, Svizzera, l’anno scorso e poi pubblicata su un giornale italiano, ha offerto un’altra spiegazione: Regeni si trovò trovato nel mezzo di una guerra per il territorio condotta nell’ombra tra agenzia di sicurezza nazionale e servizi segreti militari, nella quale un gruppo ha usato la sua morte per mettere in imbarazzo l’altro gruppo. I dettagli suggerivano che l’autore del resoconto aveva una conoscenza intima dell’apparato di sicurezza egiziano, però appariva improbabile che una sola persona potesse sapere così tanto. Tuttavia funzionari americani di alto livello mi hanno detto che la lettera era coerente con più approfonditi rapporti di intelligence sulle feroci lotte interne per il potere tra agenzie di sicurezza rivali. Uno di loro ha affermato che “usano i casi come leva per mettersi in imbarazzo a vicenda”.
La possibilità più allarmante è che la morte di Regeni sia stata un messaggio intenzionale — un segnale che, sotto al-Sisi, anche un occidentale potrebbe essere soggetto agli eccessi più brutali. A Roma, un funzionario mi ha detto che quando il corpo di Regeni fu scoperto, era appoggiato su un muro. “Volevano che lo trovassero?” Il funzionario dell’amministrazione Obama ha detto di credere che qualcuno negli alti ranghi del governo egiziano può aver ordinato la morte di Regeni “per mandare un messaggio agli altri stranieri e ai governi stranieri di smettere di giocare con la sicurezza del’Egitto.”
Nessun funzionario egiziano di grado elevato ha accettato di parlare con me per quest’articolo. Ma Hossam Zaki, l’ex vice ministro degli esteri che adesso è l’assistente segretario generale della Lega Araba, mi ha detto che i funzionari egiziani credono che l’omicidio sia stato l’opera di una non identificata “terza parte” che cercava di sabotare le relazioni tra Egitto e Italia. “Gli egiziani non trattano male gli stranieri, punto”.
Nonostante tutto ciò, la morte di Regeni ha gettato un’ombra sulla sempre più ridotta comunità di espatriati del Cairo. Mi ha detto un diplomatico europeo: “poche cose mi hanno sconvolto così profondamente”. Prima che parlassimo, il diplomatico mi aveva chiesto di depositare il mio cellulare in una scatola blocca-segnale — così che la nostra conversazione non potesse essere monitorata. La morte di Regeni, continuava il diplomatico, ha segnalato la direzione generale dell’Egitto: Regeni è stato vittima della paranoia verso gli stranieri che ora scorre attraverso la società egiziana; dopo la rivoluzione, anche piccole interazioni potevano essere pericolose. Il diplomatico ha ricordato un pranzo nel quartiere islamico del Cairo: un uomo agitato si lamentava con un altro ospite che aveva scattato una foto del pasto — fagiolini, pane e tamiyya, il falafel egiziano. Cominciò ad urlare: “Sei un straniero. Userai questa foto per mostrare che mangiamo solo fagioli e pane!”
A Fiumicello, dove Regeni è cresciuto e dove i suoi genitori ancora abitano, uno striscione che dice “Verità per Giulio Regeni” è appeso nella chiesa principale, ma pochi credono che la verità verrà mai fuori. La famiglia di Regeni ha serrato i ranghi — ha scelto un avvocato combattivo per controllare l’accesso — e hanno cominciato una loro indagine dell’omicidio. (I suoi genitori non hanno accettato di essere intervistati per quest’articolo ma hanno risposto ad alcune domande via email). Al quartier generale di Roma del Raggruppamento operativo speciale dell’Arma dei Carabinieri, che è specializzato in operazioni antiterrorismo e anti-mafia, il Gen. Giuseppe Governale insiste a dire che c’è ancora speranza di risolvere il crimine. “La mentalità araba è di procrastinare finche tutti dimenticano,” disse lui. “Ma non ci fermeremo finché troviamo una risposta. Lo dobbiamo a sua madre.”
Gli italiani hanno ciò che Carlo Bonini — un giornalista di Repubblica che ha scritto molto sul caso Regeni — chiama “l’ultima pallottola.” Secondo la legge italiana, possono [la famiglia Regeni] denunciare in un tribunale italiano i pochi funzionari della sicurezza egiziana che essi credono che siano i responsabili. Ma potrebbe essere una vittoria di Pirro: l’Egitto non estraderebbe mai qualcuno per un processo. E sembrano esserci poche possibilità che al-Sisi possa essere spinto a dire la verità. A Roma il mese scorso, alcuni funzionari hanno ammesso che l’indagine è poco più che un kabuki geopolitico; la politica, e non il lavoro della polizia, determinerebbe la sua conclusione. Nei 18 mesi dalla morte di Regeni, al-Sisi ha cenato con la Cancelliera tedesca, Angela Merkel, davanti alle piramidi, e in Aprile è stato accolto entusiasticamente alla Casa Bianca del Presidente Trump. Il 14 Agosto, il governo italiano ha annunciato l’intenzione di mandare nuovamente il proprio ambasciatore al Cairo. Il giacimento di gas naturale, Zohr, può cominciare la produzione a dicembre.
A Fiumicello, Regeni riposa sotto una fila di cipressi. Fiori, candele, volumi di Spinoza e Hesse ricoperti di plastica sono accumulati sulla sua tomba, ed una piccola foto lo raffigura mentre parla ad una folla, tenendo un microfono, il suo viso aperto ed onesto. Al contrario delle altre tombe che la circondano, la tomba di Regeni è una lastra semplice di marmo. Perché l’indagine è ancora aperta, il prete della parrocchia spiegava, i funzionari potrebbero avere ancora bisogno di riesumare i suoi resti.
Declan Walsh è il caporedattore del New York Times presso la sede del Cairo. Questo è il suo primo articolo per la rivista.
The target of the Egyptian police, that day in November 2015, was the street vendors selling socks, $2 sunglasses and fake jewelry, who clustered under the arcades of the elegant century-old buildings of Heliopolis, a Cairo suburb. Such raids were routine, but these vendors occupied an especially sensitive location. Just 100 yards away is the ornate palace where Egypt’s president, the military strongman Abdel Fattah el-Sisi, welcomes foreign dignitaries. As the men hurriedly gathered their goods from mats and doorways, preparing to flee, they had an unlikely assistant: an Italian graduate student named Giulio Regeni.
He arrived in Cairo a few months earlier to conduct research for his doctorate at Cambridge. Raised in a small village near Trieste by a sales manager father and a schoolteacher mother, Regeni, a 28-year-old leftist, was enthralled by the revolutionary spirit of the Arab Spring. In 2011, when demonstrations erupted in Tahrir Square, leading to the ouster of President Hosni Mubarak, he was finishing a degree in Arabic and politics at Leeds University. He was in Cairo in 2013, working as an intern at a United Nations agency, when a second wave of protests led the military to oust Egypt’s newly elected president, the Islamist Mohamed Morsi, and put Sisi in charge. Like many Egyptians who had grown hostile to Morsi’s overreaching government, Regeni approved of this development. ‘‘It’s part of the revolutionary process,’’ he wrote an English friend, Bernard Goyder, in early August. Then, less than two weeks later, Sisi’s security forces killed 800 Morsi supporters in a single day, the worst state-sponsored massacre in Egypt’s history. It was the beginning of a long spiral of repression. Regeni soon left for England, where he started work for Oxford Analytica, a business-research firm.
From afar, Regeni followed Sisi’s government closely. He wrote reports on North Africa, analyzing political and economic trends, and after a year had saved enough money to start on his doctorate in development studies at Cambridge. He decided to focus on Egypt’s independent unions, whose series of unprecedented strikes, starting in 2006, had primed the public for the revolt against Mubarak; now, with the Arab Spring in tatters, Regeni saw the unions as a fragile hope for Egypt’s battered democracy. After 2011 their numbers exploded, multiplying from four to thousands. There were unions for everything: butchers and theater attendants, well diggers and miners, gas-bill collectors and extras in the trashy TV soap operas that played during the holy month of Ramadan. There was even an Independent Trade Union for Dwarfs. Guided by his supervisor, a noted Egyptian academic at Cambridge who had written critically of Sisi, Regeni chose to study the street vendors — young men from distant villages who scratched out a living on the sidewalks of Cairo. Regeni plunged into their world, hoping to assess their union’s potential to drive political and social change.
But by 2015 that kind of cultural immersion, long favored by budding Arabists, was no longer easy. A pall of suspicion had fallen over Cairo. The press had been muzzled, lawyers and journalists were regularly harassed and informants filled Cairo’s downtown cafes. The police raided the office where Regeni conducted interviews; wild tales of foreign conspiracies regularly aired on government TV channels.
Regeni was undeterred. Proficient in five languages, he was insatiably curious and exuded a low-intensity charm that attracted a wide circle of friends. From 12 to 14, he served as youth mayor of his hometown, Fiumicello. He prided himself on his ability to navigate different cultures, and he relished Cairo’s unruly street life: the smoky cafes, the endless hustle, the candy-colored party boats that plied the Nile at night. He registered as a visiting scholar at American University in Cairo and found a room in Dokki, a traffic-choked neighborhood between the Pyramids and the Nile, where he shared an apartment with two young professionals: Juliane Schoki, who taught German, and Mohamed El Sayad, a lawyer at one of Cairo’s oldest law firms. Dokki was an unfashionable address, but it was just two subway stops from downtown Cairo with its maze of cheap hotels, dive bars and crumbling apartment blocks encircling Tahrir Square. Regeni soon befriended writers and artists and practiced his Arabic at Abou Tarek, a four-story neon-lit emporium that is Cairo’s most famous spot for koshary, the traditional Egyptian dish of rice, lentils and pasta.
He spent hours interviewing street vendors in Heliopolis and at the small market behind the Ramses train station. To win their trust, he ate from the same grubby street carts as his subjects; his academic supervisor at American University warned he would get food poisoning. Regeni didn’t care: He glided through Cairo with a quiet sense of purpose.
By chance, Valeriia Vitynska, a Ukrainian he met in Berlin four years earlier, had come to Cairo for work. They reconnected. ‘‘She was more beautiful than I remembered,’’ he texted a friend. They took a trip to the Red Sea, and when she returned to her job in Kiev, they kept the relationship going over Skype. ‘‘It was very intense and beautiful,’’ Regeni’s friend Paz Zárate told me. ‘‘He was so joyful, so full of hope for the future.’’
Yet Regeni was also conscious of Cairo’s dangers. ‘‘It’s very depressing,’’ he wrote Goyder a month into his stay. ‘‘Everyone is superaware of the games that are going on.’’ In December he attended a meeting of trade-union activists in central Cairo and wrote about it, under a pseudonym, for a small Italian news service. During the meeting, he told friends, he spotted a veiled young woman taking his picture with her cellphone. It was disconcerting. Regeni complained to friends that some street vendors were hassling him for favors, like new cellphones. Then his relationship with his main contact, a burly man in his 40s named Mohamed Abdullah, took a strange turn.
Abdullah, who worked for a decade for a Cairo tabloid, in distribution, before rising to the top of the street vendors’ union, was Regeni’s guide, offering advice and introducing him to men he could interview. One evening in early January last year, the two met in an ahua — a cafe where men often smoke water pipes — near the Ramses train station. Over tea, they discussed a £10,000 ‘‘scholar activist’’ grant offered by a British nonprofit group called the Antipode Foundation. Regeni offered to apply for the money. Abdullah had other ideas. Could it be used for ‘‘freedom projects’’ — political activism against the Egyptian government? No, it could not, Regeni replied firmly. Abdullah changed tack. His daughter required surgery, and his wife had cancer. He would ‘‘jump on anything’’ for cash. Regeni, growing exasperated, gesticulated theatrically as he touched the limits of his Arabic. ‘‘Mish mumkin,’’ he said. It’s not possible. ‘‘Mish professional.’’
Two weeks later, on the fifth anniversary of the 2011 uprising, Cairo was in lockdown. Tahrir Square was deserted except for 100 or so government supporters bused in to wave Sisi signs and take selfies with the riot police. The security services had been rounding up potential protesters for weeks, raiding downtown apartments and cafes. Like most Cairenes, Regeni spent the day at home, working and listening to music. Once darkness fell he deemed it safe to leave the apartment: An Italian friend had invited him to a birthday party for an Egyptian leftist. They’d arranged to meet at a cafe near Tahrir Square.
Before heading out, Regeni listened to a Coldplay song — ‘‘A Rush of Blood to the Head’’ — and texted Vitynska. ‘‘I’m going out,’’ he announced at 7:41 p.m. It was a short walk to the subway. But by 8:18 Regeni still had not arrived. His Italian friend began trying to contact him — at first with texts, then with frantic calls.
Among the most intoxicating promises of the Arab Spring was the hope that Egypt’s detested security apparatus would be dismantled. In March 2011, in the heady early months of the uprising, Egyptians stormed the headquarters of State Security, the chief arm of Mubarak-era repression, and emerged with lists of informants, copies of surveillance photos and transcripts of intercepted phone calls. Some found pictures of themselves. There were calls for a radical overhaul of the security sector. But as the country skidded into post-revolution disorder, the talk of reform was lost. After Sisi came to power, in 2013, it became clear how little had changed.
State Security was renamed the National Security Agency, but it remained under the control of the powerful Interior Ministry, which was thought to employ at least 1.5 million police officers, security agents and informants. Officers who had been fired were reinstated and the torture chambers reopened. Opposition leaders, fearing arrest, fled the country. Human rights monitors started to count the numbers of the ‘‘disappeared’’ — critics who vanished into state custody without arrest or trial — until the monitors, too, began to disappear.
Today, Egypt is arguably a harsher place than it ever was under Mubarak. After seizing power, Sisi was elected president in 2014 with 97 percent of the vote. Parliament is stuffed with his supporters, and the jails are filled with his opponents — 40,000 people, by most counts, primarily from the banned Muslim Brotherhood, the Islamist organization founded in 1928, but also lawyers, journalists and aid workers. Sisi justifies these measures by pointing to the danger from extremists. Islamic State militants have been fighting Egyptian soldiers in Sinai since 2014; this year they sent suicide bombers into Coptic churches, killing dozens. A good number of Egyptians worry that without a firm hand, their nation of 93 million could become the next Syria, Libya or Iraq. Most of the country’s elites, fearing the kind of upheaval that followed the Arab Spring, are firmly with Sisi; many of its intellectuals, dismayed by their short-lived experiment with democracy, admit that they are out of ideas.
Unaffiliated with a political party, Sisi draws his authority from the totems of the state — generals, judges and security chiefs — who are increasingly powerful. The guiding principle of this incipient police state is to prevent a recurrence of the events of 2011, one Western ambassador, who asked to remain unnamed because he is not authorized to speak on the subject, told me as we sat in his garden last winter. In his final decade in power, Mubarak made a number of concessions. The Muslim Brotherhood won a fifth of the seats in Parliament; the press enjoyed a measure of freedom; some labor strikes were grudgingly permitted. But none of this saved Mubarak — in fact, in the view of Sisi officials, his laxity hastened his demise. The lesson was clear: ‘‘To give an inch is a mistake,’’ the ambassador said, listing the characteristics of the Sisi regime, ‘‘secrecy, paranoia, the sense that you assert power by looking strong and not showing weakness or building bridges.’’
Deciphering the inner workings of the three major security agencies has become a fixation of Egypt watchers. ‘‘It’s very opaque, like a black box,’’ Michael Wahid Hanna of the Century Foundation, a policy institute based in New York, told me. ‘‘But there are clues.’’
The security agencies are loyal to Sisi, Hanna explained, but are always jockeying for position. National Security, thought to have 100,000 employees and at least as many informants, remains the most visible. Its emergent rival is Military Intelligence, which traditionally steered clear of politics but has expanded under Sisi, who led the agency from 2010 to 2012. The General Intelligence Service is Egypt’s equivalent of the C.I.A. Hugely powerful under Mubarak, it is now viewed as somewhat diminished.
Together, these agencies enjoy inordinate influence. They own TV stations, control blocs in Parliament and dabble in business; their agents patrol the streets and the internet. They draw the red lines in Egyptian society between what is permissible and what is not. That makes Egypt a perilous place to navigate for critics: One wrong move, or even a misjudged joke (Egyptians have been jailed for their Facebook posts), can lead to imprisonment or to being barred from leaving the country. Amnesty International puts the number of disappeared at 1,700 and says that extrajudicial executions are common.
When Regeni arrived in 2015, foreigners were thought to be subject to different rules. It was true that some had run into trouble. Earlier that year, the Australian journalist Peter Greste of Al Jazeera was finally freed after 13 months in jail on charges of ‘‘damaging national security’’; a French student was expelled for interviewing democracy activists. Regeni’s academic advisers warned him to avoid contact with members of the Muslim Brotherhood. ‘‘The situation here is not easy,’’ he messaged a friend a month after he arrived. But on the whole, Regeni, his supervisor later told me, believed that his passport would protect him. His abiding fear was that he would be sent back to Cambridge before he could finish his research.
A week after Regeni vanished, Italy’s ambassador to Cairo, Maurizio Massari, was seized by a sense of foreboding. With his shock of gray hair and his polished charm, Massari was a popular fixture on the Cairo diplomatic circuit. He liked to host gatherings of Egyptian academics and politicians, and on weekends he watched soccer games with his American counterpart, Ambassador R. Stephen Beecroft. Now, he restlessly paced the long marble corridors of the Italian Embassy overlooking the Nile.
News of Regeni’s disappearance was rippling across Cairo. His friends had started an online search campaign with the hashtag #whereisgiulio. Regeni’s parents had flown in from Italy and were staying at his apartment in Dokki. A rumor circulated that Regeni had been snatched by Islamist radicals — a terrifying prospect because, six months earlier, a Croatian engineer kidnapped on the outskirts of Cairo was beheaded by Islamic State militants. The ambassador’s anxiety was amplified by the response of Egyptian officials. The Italian intelligence station at the embassy had no leads, so he sought out the foreign minister, the minister of military production and Sisi’s national-security adviser Fayza Abul Naga. All claimed to know nothing of Regeni. The most disquieting encounter was with the powerful interior minister, Magdi Abdel-Ghaffar, who took six days to agree to a meeting only to sit impassively as the Italian diplomat pleaded for help. Massari left perplexed: Abdel-Ghaffar, a 40-year veteran of the security services, had an army of informants on the streets of Cairo. How could he be in the dark?
The police started a missing-persons investigation but seemed to be pursuing some odd lines of inquiry. When detectives interviewed Amr, a leftist university professor and a friend of Regeni’s who asked that his last name not be used to protect him from retaliation, they repeatedly asked if Regeni was gay. ‘‘I told them he has a girlfriend,’’ Amr said when we met over coffee near his home in the suburb of Maadi. ‘‘Then the next guy goes: ‘Are you sure he is straight? Maybe he’s one of these bisexuals.’ ’’
‘‘I said, ‘You should just find him.’ ’’
The crisis was compounded by the arrival of a high-level Italian trade delegation. Since 1914, Italy had maintained diplomatic ties with Egypt, embracing the country even when others kept their distance. Italy was Egypt’s biggest trading partner in Europe — nearly $6 billion in 2015 — and Rome prided itself on its close ties to Cairo. In 2014 Matteo Renzi, then the Italian prime minister, became the first Western leader to welcome Sisi in his capital, and Italy continued to sell weapons and surveillance systems to Egypt even as evidence of rights abuses mounted.
The day after Massari’s meeting with the interior minister, Italy’s investment minister, Federica Guidi, flew to Cairo with 30 Italian executives, hoping to strike deals in construction, energy and the arms trade. Now Regeni was at the top of the agenda. The group went straight to Al-Ittihadiya, the main presidential palace, where months earlier, Regeni had helped the street vendors during the police raid outside its back gates. Massari and Guidi were ushered into a private meeting with Sisi, who listened gravely as the Italians outlined their concerns. But he, too, offered only sympathy.
That evening Massari hosted a reception for the trade delegation and Egyptian business leaders at the embassy. About 200 people mingled in the reception hall, sipping wine as they waited for dinner to be served. Among them was Egypt’s deputy foreign minister, Hossam Zaki, who pushed through the crowd to Massari, wearing a dark expression. ‘‘Don’t you know?’’ he said.
‘‘Know what?’’ Massari replied.
‘‘A body has been found.’’
Early that morning, the driver of a passenger bus traveling the busy Alexandria Desert Highway, in western Cairo, noticed something on the side of the road. When he got out, he discovered a body, naked from the waist down and smeared in blood. It was Regeni.
Massari rushed to the Four Seasons hotel, where Guidi was staying, and together they phoned Renzi and the foreign minister, Paolo Gentiloni. They canceled the reception, sending puzzled guests home without explanation. Then Massari and the minister went to Regeni’s apartment in Dokki, where Regeni’s parents were staying. When the ambassador embraced Regeni’s mother, Paola Deffendi, her worst fears were confirmed. ‘‘It’s all over,’’ she later told the press. ‘‘The happiness of our family was so short.’’
Massari arrived at the Zeinhom morgue in central Cairo after midnight. A small team from the embassy, including a policeman, accompanied him. At first, morgue officials refused them entry. ‘‘Open the door!’’ yelled Massari, visibly agitated. Massari was finally led into a chilled room where Regeni’s body was laid out on a metal tray.
Regeni’s mouth was agape and his hair was matted with blood. One of his front teeth was missing and several were chipped or broken, as if they had been struck with a blunt object. Cigarette burns pocked his skin, and there were a number of deep wounds on his back. His right earlobe had been sliced off, and the bones in his wrists, shoulders and feet were shattered. A wave of nausea washed over Massari. Regeni appeared to have been extensively tortured. Days later, an Italian autopsy would confirm the extent of his injuries: Regeni had been beaten, burned, stabbed and probably flogged on the soles of his feet over a period of four days. He died when his neck was snapped.
The office of Ahmed Nagy, the prosecutor who initially oversaw Regeni’s murder investigation, is on the seventh floor of the dilapidated Giza courthouse building, a few miles from Tahrir Square. On any given day, hundreds of people course through the narrow corridors — lawyers, manacled prisoners and their families. When I went to see him a few weeks after Regeni’s death, Nagy, a wiry chain-smoker, was perched behind a Louis XIV-style desk piled with papers and half-drunk cups of coffee.
In the early hours of the investigation, Nagy spoke with astonishing bluntness. He told reporters that Regeni suffered a ‘‘slow death’’ and allowed that the police might be involved: ‘‘We don’t rule it out.’’ But soon after that, the chief detective on the case suggested that Regeni died in a car crash. Lurid theories appeared in the papers and on TV: Regeni was gay and had been murdered by a jealous lover. He was a drug addict or a Muslim Brotherhood pawn. He was a spy. Several reports noted his work at Oxford Analytica, which had been founded by a one-time Nixon administration official, as a probable sign of employment by the C.I.A. or Britain’s M.I.6. At a news conference, the interior minister, Abdel-Ghaffar, dismissed suggestions that the security forces had detained Regeni. ‘‘Of course not!’’ he said. ‘‘This is the final say in the matter: It did not happen.’’
Nagy’s office was cool and dark, the blinds tightly drawn as air spewed from a noisy air-conditioning unit. With his slicked-back hair and flickering smile, Nagy affected an air of easy confidence. But the boldness he once demonstrated about the Regeni case was gone. He responded to my questions with polished evasions, lighting one cigarette after another as he spoke. ‘‘Murders can go unsolved,’’ Nagy concluded after 30 unfruitful minutes. ‘‘We will just have to wait. Inshallah, something will come of it.’’
Egyptian officials have a long record of facing crises in just this way: denial, then obfuscation, followed by running the clock in hopes that the problem will fade away. In September 2015, the month Regeni arrived, an Egyptian helicopter gunship shot dead eight Mexican tourists and four Egyptians as they picnicked in the Western Desert, having mistaken them for terrorists. Instead of apologizing, the authorities tried to blame the tour guides, then promised an investigation that has never reported any findings. The government of Mexico was furious. A month later, Egypt initially refused to admit that an Islamic State bomb had downed a Russian jetliner over Sinai, killing 224 people, even though both Russia and the Islamic State said it had.
But if Egyptian officials thought they could bluff their way out of the Regeni crisis, they miscalculated. More than 3,000 people attended his funeral in his home village, Fiumicello; across Italy, grief turned to outrage as details emerged of his agonizing torture. In the press, Regeni was often portrayed in a photo that showed him smiling with a cat in his arms. Yellow banners with the slogan Verità per Giulio Regeni appeared in cities and villages. ‘‘We will stop only when we find out the truth,’’ Renzi, the prime minister, told reporters. ‘‘The real truth, and not a convenient truth.’’
Renzi’s fury was based on more than a hunch. In the weeks after Regeni’s death, the United States acquired explosive intelligence from Egypt: proof that Egyptian security officials had abducted, tortured and killed Regeni. ‘‘We had incontrovertible evidence of official Egyptian responsibility,’’ an Obama administration official — one of three former officials who confirmed the intelligence — told me. ‘‘There was no doubt.’’ At the recommendation of the State Department and the White House, the United States passed this conclusion to the Renzi government. But to avoid identifying the source, the Americans did not share the raw intelligence, nor did they say which security agency they believed was behind Regeni’s death. ‘‘It was not clear who gave the order to abduct and, presumably, kill him,’’ another former official said. What the Americans knew for certain, they told the Italians, was that Egypt’s leadership was fully aware of the circumstances around Regeni’s death. ‘‘We had no doubt that this was known by the very top,’’ said the other official. ‘‘I don’t know if they had responsibility. But they knew. They knew.’’
Weeks later, in early 2016, John F. Kerry, then secretary of state, confronted Egypt’s foreign minister, Sameh Shoukry, during a meeting in Washington. It was a ‘‘pretty contentious’’ conversation, one Obama official told me, although the Kerry team couldn’t figure out if Shoukry was stonewalling or simply didn’t know the truth. The blunt approach ‘‘raised eyebrows’’ inside the administration, another said, because Kerry had a reputation for treating Egypt, a fulcrum of American foreign policy since the 1979 Egypt-Israeli peace treaty, with kid gloves.
By then a team of seven Italian investigators had arrived in Cairo to help with the Egyptian investigation. They were hindered at every turn. Witnesses appeared to have been coached. Surveillance footage from the subway station near Regeni’s apartment had been deleted; requests for metadata from millions of phone calls were refused on the grounds that it would compromise the constitutional rights of Egyptian citizens. Some brave Egyptian witnesses visited the investigators at their temporary office in the basement of the Italian Embassy. But even there the Italians were uneasy.
Massari, the ambassador, became concerned about embassy security after Regeni’s death; soon he stopped using email and the phone for sensitive matters, resorting to an old-fashioned paper-based encryption machine to send messages to Rome. Italian officials worried that Egyptians who worked in the Italian Embassy were passing information to Egyptian security forces; they noticed that the lights were permanently off in an apartment across from the embassy — a good spot to place a directional microphone. Massari, still traumatized by the memory of Regeni’s injuries, had become a recluse, avoiding meetings with other ambassadors. His relationship with the Egyptian government was deteriorating; Egyptian officials, infuriated by an interview he gave to an Italian TV station, determined that he was trying to pin the murder on them. ‘‘We deduced he had already taken sides,’’ Hossam Zaki, the deputy foreign minister, told me later. ‘‘He was kind of moot. Useless.’’ When Massari did venture out, people noted that he looked exhausted. Friends said he was struggling to sleep.
International pressure was building on the Egyptians. Italian newspapers sent their most dogged investigative reporters to Cairo. A website called RegeniLeaks sprang up, soliciting tips from Egyptian whistle-blowers. Regeni’s mother began her own campaign to uncover the truth, relating in a news conference that she was able to recognize his battered body only by ‘‘the tip of his nose.’’ Italian actors, TV personalities and soccer players rallied to her side. Egyptians told Deffendi that her son had ‘‘died like an Egyptian’’ — a badge of honor in Sisi’s Egypt. The European Parliament passed a stinging resolution condemning the suspicious circumstances under which Regeni had died; in London, campaigners presented a petition with more than 10,000 signatures to Parliament, calling for the British government to ensure a ‘‘credible investigation.’’ The F.B.I. was also assisting in the Italian investigation; when an Egyptian friend of Regeni’s landed in the United States, on vacation, agents pulled her aside for an interview.
This time stonewalling wasn’t going to work. ‘‘We are in deep [expletive],’’ observed a leading TV host, Amr Adeeb, on his show.
‘‘Do you speak Latin?’’ Luigi Manconi, an Italian senator who championed the Regeni family’s cause, asked when I visited him in Rome in January. ‘‘There is a phrase in Latin — arcana imperii. It means the secrets of power.’’
He paused and looked up for effect.
‘‘That is what we see in Egypt: the dark side of those institutions; the secrets in their hearts.’’
The senator was referring to Egypt’s security agencies, but what he didn’t mention was that the Regeni investigation was also exposing painful rifts inside the Italian state. There were other priorities. Italy’s intelligence services needed Egypt’s help in countering the Islamic State, managing the conflict in Libya and monitoring the flood of migrants across the Mediterranean. And Italy’s state-controlled energy company, Ente Nazionale Idrocarburi, or Eni, had its own stake. Weeks before Regeni arrived in Cairo, Eni announced a major discovery: the Zohr gas field, 120 miles off the north coast of Egypt, which contained an estimated 850 billion cubic meters of gas — the equivalent of 5.5 billion barrels of oil.
Italy is one of Europe’s most energy-vulnerable countries, which makes Eni more than just a $58 billion titan with operations in 73 countries; it makes it an integral part of Italian foreign policy. In 2014, Renzi acknowledged as much, calling Eni ‘‘a fundamental piece of our energy policy, our foreign policy and our intelligence policy.’’ In many countries, Eni’s chief executive Claudio Descalzi — a towering Milanese oilman, who has driven recent exploration efforts across Africa — knows the leaders better than Italy’s ministers do.
As the pressure to solve Regeni’s murder mounted, Descalzi, a regular visitor to Cairo, assured Amnesty International that the Egyptian authorities were ‘‘putting in maximum effort’’ to find Regeni’s killers. He discussed the case at least three times with Sisi. According to one official at Italy’s Foreign Ministry, diplomats came to believe that Eni had joined forces with Italy’s intelligence service in a bid to find a speedy resolution to the case. Eni has a long history of hiring retired Italian spies to staff its internal security division, says Andrea Greco, a co-author of ‘‘The Parallel State,’’ a 2016 year book on Eni. ‘‘They have a strong collaboration,’’ he said. ‘‘I’m sure they may have collaborated in the Regeni case, although it’s not for certain that their interests are aligned.’’ A spokeswoman for Eni says that the company was ‘‘horrified’’ by Regeni’s death and while it had no responsibility to investigate, it continued ‘‘to follow the matter very closely’’ in its interactions with the Egyptian government.
The perceived cooperation between Eni and Italy’s intelligence services became a source of tension inside the Italian government. Foreign Ministry and intelligence officials turned guarded with one another, sometimes withholding information. ‘‘We were at war, and not only with the Egyptians,’’ one official told me. Diplomats suspected that Italian spies, in an attempt to close the case, had brokered an interview by the Italian newspaper La Repubblica with Sisi six weeks after Regeni’s death. (The editor of La Repubblica maintains that the request for the interview came from the newspaper.) In it, Sisi sympathized with Regeni’s parents, calling his death ‘‘terrifying and unacceptable,’’ and vowed to find the culprits. ‘‘We will get to the truth,’’ he said.
On March 24, eight days after the interview appeared, the Cairo police opened fire on a minivan carrying five men, several with criminal records or histories of drug abuse, as it drove through a well-to-do suburb. All five were killed, and the police issued a statement calling them a gang of kidnappers who had been targeting foreigners. In a subsequent raid on an apartment linked to the men, the police said they discovered Regeni’s passport, credit card and student identity card. Soon, state media was reporting that Regeni’s killers had been identified. The Italian investigators, who were at the Cairo airport to fly home for Easter, were recalled, and the Interior Ministry thanked them for their cooperation.
In Italy, news of the shooting met with skepticism — the hashtag #noncicredo, I don’t believe it, circulated on Twitter. The Egyptian account quickly fell apart. Witnesses told several journalists (including me) that the men had been executed in cold blood. One was shot as he ran, his corpse later positioned inside the van. ‘‘They never stood a chance,’’ one man told me, shaking his head. The men’s link to Regeni crumbled: Italian investigators used phone records to show that the supposed gang leader, Tarek Abdel Fattah, was 60 miles north of Cairo the day he supposedly kidnapped Regeni.
Last fall, Egypt’s chief prosecutor told his Italian counterpart that two police officers had been charged with murder in connection with the five deaths. But an awkward question remained: If the dead men hadn’t killed Regeni, then how did his passport get into their apartment?
Italians had little doubt that the whole episode was a crude cover-up, so badly bungled that the Egyptians had incriminated themselves. Yet it had worked. The Italian detectives left Cairo, and the investigation stalled. Massari was replaced with a new ambassador who was ordered to remain in Rome. In Egypt, ‘‘Regeni’’ became a word to be whispered. ‘‘Everyone who cares about Giulio is afraid,’’ Hoda Kamel, a union organizer who helped Regeni in his research, told me. ‘‘It feels like all of the state, with all of its strength, is trying to kill the story.’’
After months of strained diplomatic ties, the Egyptian wall of denial cracked — or seemed to. In a trip to Rome last September, Egypt’s chief prosecutor, Nabil Sadek, publicly admitted that Egypt’s National Security Agency, suspecting Regeni of espionage, had been monitoring him. In a series of meetings over the next few months, he provided the Italians with documents — phone records, witness statements and a video — that showed Regeni was betrayed by several people close to him.
Muhammad Abdullah, Regeni’s contact in the street vendors’ union, was an informant for the National Security Agency. Using a hidden camera, he had taped his conversation with Regeni about the £10,000 grant (the Egyptians handed over the video). He made a statement detailing his meetings with his handler, Col. Sharif Magdi Ibrahim Abdlaal, who, he said, had promised him a reward once the Regeni case was closed.
The identity of the second person was perhaps more surprising. Italian officials came to believe that in the month before Regeni vanished, his lawyer roommate, Mohamed El Sayad, allowed officials from the National Security Agency to search the apartment. In the weeks that followed, phone records showed, Sayad spoke with two National Security Agency officials.
Sayad did not respond to requests for comment, but I had a long exchange, over Facebook, with Regeni’s other roommate, Juliane Schoki. Her account was symptomatic of the climate of mistrust in Sisi’s Cairo. According to Schoki, Sayad voiced suspicions of Regeni within days of his moving into their flat. ‘‘I think Giulio is a spy,’’ she recalled him saying.
After Regeni disappeared, she began to share that view. The two speculated that he was working for Mossad. (Regeni, she said, told her he once had an Israeli girlfriend and had visited Israel.) Schoki, who has since left Egypt, relayed this theory to Egyptian intelligence officers. ‘‘They were surprised because they had the same idea,’’ she recalled.
After Regeni died, she would sit with Sayad watching thrillers on TV, saying, ‘‘That’s exactly how it is!’’ — something that, in retrospect, ‘‘looks a bit ridiculous,’’ she admitted. ‘‘But a year ago it made perfect sense.’’
The Italians used Egyptian phone records to make other connections and discovered that the police officer who claimed to have found Regeni’s passport had been in touch with members of the National Security team that had been following Regeni. Suddenly, Regeni’s parents dared to hope the truth might surface. ‘‘The evil is unraveling slowly, like a ball of wool,’’ his parents wrote in a letter published in La Repubblica on the first anniversary of his disappearance.
But although the Egyptians admitted to surveilling Regeni, they insisted they had not abducted or killed him. And even if that could be proved, the core mystery remained: Why had he been ‘‘killed like an Egyptian’’? One common theory pointed to the work of a rogue officer. At the Interior Ministry, which controls National Security, even low-level officers enjoy considerable autonomy yet are rarely held to account, according to Yezid Sayigh, a senior associate at the Carnegie Middle East Center in Beirut. ‘‘Things may happen that Sisi does not approve of,’’ he said. But there was much else that made little sense. Which Egyptian official figured that torturing a foreigner was a good idea? Why dump his body on a busy highway, instead of burying it in the desert where it might never be found? And why produce his body as a high-level Italian delegation arrived in Cairo?
An anonymous letter sent to the Italian Embassy in Bern, Switzerland, last year and later published in an Italian newspaper, offered another explanation: Regeni had been caught in a shadowy turf war between National Security and Military Intelligence, with one group seeking to use his death to embarrass the other. The details suggested that the author of the account was intimately familiar with Egypt’s security apparatus, yet it also seemed improbable that one person could know so much. Senior American officials told me the letter was consistent, however, with broader intelligence reports of the fierce jockeying for power among rival security agencies. ‘‘They try to use cases as a lever to embarrass one another,’’ one said.
The most alarming possibility is that Regeni’s death was a deliberate message — a sign that, under Sisi, even a Westerner could be subjected to the most brutal excesses. In Rome, an official told me that when Regeni’s body was discovered, it was propped up against a wall. ‘‘Did they want him to be found?’’ the official asked. The Obama official said he believed that someone in the ‘‘upper echelons’’ of the Egyptian government may have ordered Regeni’s death ‘‘to send a message to other foreigners and foreign governments to stop playing with Egypt’s security.’’
No senior Egyptian official agreed to speak to me for this article. But Hossam Zaki, the former deputy foreign minister who is now assistant secretary general at the Arab League, told me that Egyptian officials believe that the murder was the work of an unidentified ‘‘third party’’ seeking to sabotage Egypt’s relations with Italy. ‘‘Egyptians do not treat foreigners badly, full stop,’’ he said.
Nonetheless, Regeni’s death cast a chill over Cairo’s shrinking expatriate community. ‘‘Few things have shaken me so deeply,’’ one European diplomat told me. Before we spoke, the diplomat asked me to deposit my cellphone in a signal-blocking box so that our conversation could not be surveilled. Regeni’s death, the diplomat continued, signaled Egypt’s broader direction: Regeni had fallen victim to the paranoia about foreigners that now coursed through Egyptian society; since the revolution, even small interactions could be fraught. During lunch in Cairo’s Islamic Quarter, the diplomat recounted, an agitated man remonstrated loudly with another guest for taking a photo of a meal — beans, bread and tamiyya, the Egyptian falafel. ‘‘He started to shout: ‘You’re a foreigner. You will use this image to show that we only eat beans and bread!’ ’’
In Fiumicello, where Regeni grew up and his parents still live, a banner reading ‘‘Verità per Giulio Regeni’’ hangs in the main church, but few believe that the truth will ever come out. Regeni’s family has closed ranks, appointing a pugnacious lawyer as its gatekeeper, and begun their own investigation into his murder. (His parents declined to be interviewed for this article but answered some questions by email.) At the Rome headquarters of the Carabinieri’s Special Operations Group, which specializes in counterterrorism and anti-mafia operations, Gen. Giuseppe Governale insists that there is still hope of solving the crime. ‘‘The Arab mentality is to procrastinate until everyone forgets,’’ he said. ‘‘But we will not stop until we find an answer. We owe it to his mother.’’
Italians have what Carlo Bonini, a journalist for La Repubblica who has written extensively on the Regeni case, calls ‘‘the last bullet.’’ Under Italian law, they could press charges in an Italian court against the handful of Egyptian security officials they believe to be responsible. But that might be a Pyrrhic victory: Egypt would never extradite anyone for trial. And there seems little chance that Sisi can be pressured into revealing the truth. In Rome last month officials admitted that the investigation was now little more than geopolitical kabuki; politics and not police work would determine its conclusion. In the 18 months since Regeni was killed, Sisi has had dinner with the German chancellor, Angela Merkel, in front of the pyramids, and in April he received a rapturous welcome at the White House from President Trump. On Aug. 14, the Italian government announced it intended to send its ambassador back to Cairo. The Zohr gas field is on track to start production in December.
In Fiumicello, Regeni lies buried under a line of cypress trees. Flowers, devotional candles and plastic-wrapped volumes of Spinoza and Hesse are piled on his grave, and a small photograph shows him speaking to a crowd, clutching a microphone, his face open and earnest. But unlike the elaborate neighboring tombs that surround it, Regeni’s gravestone is just a plain marble slab. Because the investigation is still open, the parish priest explained, officials might yet need to exhume his remains.
Sign up for our newsletter to get the best of The New York Times Magazine delivered to your inbox every week.
Declan Walsh is the Cairo bureau chief for The Times. This is his first article for the magazine.